GLi USA e il mito della frontiera mobile


Lo storico che teorizza la costruzione degli USA a partire dal mito della frontiera è J. F: Turner, La frontiera nellastaoria americana.
Per iniziare ad informarti puoi confrontare questi due link.

http://www.pbmstoria.it/dizionari/storiografia/lemmi/164.htm

http://www.sitotecacapitello.eu/storia/index.php?option=com_content&view=article&id=81:stati-uniti-damerica-il-mito-della-qfrontieraq&catid=3:articoli&Itemid=14

frontiera

Nella cultura tradizionale statunitense indica idealmente quel limite oltre il quale esiste la «barbarie della natura e dei popoli» (wilderness) in opposizione a quel “di qua” rappresentato dalla civiltà euroamericana. Nella storiografia statunitense la frontiera assunse diversi aspetti a seconda delle interpretazioni che ne furono date nel corso del Novecento. Acquisita la sua dignità storica grazie al lavoro di F.J. Turner, La frontiera nella storia americana, il concetto di frontiera fu rivisitato ripetutamente dagli storici che ne modificarono volta per volta l’aspetto. La frontiera rimase per decenni nell’immaginario di molti storici degli Stati uniti come il potenziale di espansione e di risorse che determinava la formazione di un’identità americana. Fu concepita da Turner come un insieme di ostacoli il cui progressivo superamento contribuiva a formare il carattere della giovane nazione statunitense; il concetto poi subì un radicale mutamento grazie alle nuove letture offerte dagli storici del secondo dopoguerra. Rivisitando le interpretazioni di Turner, di W. Prescott Webb e di R.A. Billington, che la definivano un elemento fondamentale nella costituzione della democrazia statunitense e del suo incredibile progresso economico, questi storici ne ridussero anche criticamente il fascino romantico e avventuroso. Il mito della frontiera, e non la frontiera stessa, venne così a rappresentare il fulcro di una presa di coscienza tutta americana della propria identità. R. Slotkin, in Regeneration through Violence (1973) e The Fatal Environment. The Myth of the Frontier in the Age of Industrialization 1800-1890 (1985), grazie a una metodologia combinata di storia sociale e di critica letteraria offrì una visione nuova del mito come aspetto fondante della realtà euroamericana degli Stati uniti. Nella rilettura dei suoi aspetti eroici (i cowboy e i distaccamenti di cavalleria, i selvaggi indiani e la devozione dei missionari, la brutalità dei cacciatori di pellicce o dei cercatori d’oro) Slotkin penetrò le diverse realtà sociali di quel mondo dell’ovest americano che, pur immerso nella wilderness, viveva ancora profondamente radicato nella ci viltà euroamericana che idealmente si lasciava alle spalle. R. Bartlett nella sua analisi della cosiddetta New Country (1974) ma soprattutto P. Nelson Limerick in The Legacy of Conquest (1987) videro nella frontiera un luogo della diversità. Etnie diverse, gruppi sociali differenti come diverse realtà socioeconomiche si incontravano ed erano costrette a trovare un modus vivendi, un’accettazione reciproca, andando così a popolare un luogo dove i diversi elementi della società euroamericana, scomposti da un altro fattore caratterizzante dell’esperienza di frontiera, il viaggio, a cui J. Faragher attribuì un ruolo determinante, si ricomponevano in tempi e combinazioni diverse, eppure somiglianti al passato. Questi studi contribuirono anche a far riconsiderare un altro aspetto della storiografia americana legato alla frontiera: l eccezionalismo, al quale le tesi di Turner avevano dato un impulso importante. Come notò W. Cronon si era ormai lontani dalla definizione offerta da Turner. Lì i diversi aspetti naturali che costituivano la frontiera, tra i quali, secondo un’idea consolidata fino ai primi decenni di questo secolo, vi erano anche le popolazioni indigene, erano ostacoli che contribuivano alla costituzione di un nuovo carattere, offrendo materie prime da sfruttare e costringendo i pionieri ad adattare e adattarsi all’ambiente. La natura era complice dell’uomo nello sviluppo della sua personalità individuale e di una nuova società. In precedenza numerose riletture della tesi di Turner avevano contribuito d’altronde a modificare parzialmente la prospettiva. Per P. Webb la Great Frontier (1952) permise lo sviluppo economico della giovane nazione statunitense grazie alla sua capacità di creare profitti enormi per un sistema capitalistico in espansione. Webb vide però nella natura un ostacolo ben maggiore di quello individuato da Turner: le grandi pianure (The Great Plains, 1931) crearono in realtà grandi difficoltà per i coloni, facendo sì che lo sviluppo subisse un temporaneo arresto. Fu solo grazie alla tecnologia e alle capacità industriali del nuovo paese che queste difficoltà vennero superate. L’interpretazione di Webb rappresentò quel punto di passaggio che portò la storiografia della frontiera americana direttamente a R.A. Billington. Pur riconoscendo la forza propulsiva della frontiera nello sviluppo dell’economia statunitense Billington ne individuò, infatti, diversi tipi, che contribuirono in misure e modi diversi al progresso della nazione. In The Far Western Frontier (1956) egli descrisse diverse frontiere caratterizzate da diverse basi metropolitane. Secondo Billington la città e il suo contesto industriale, combinandosi con ambienti nuovi e differenti, produceva una forza espansiva atta a stimolare l’ulteriore progresso economico e politico del paese e della popolazione. Ancora una volta i nuovi territori aperti alla colonizzazione rappresentavano un potenziale tutto da sfruttare e riconvertire nelle capacità produttive della giovane de-mocrazia. Gli studi storici degli anni Settanta e Ottanta non negarono la capacità della frontiera di rimodellare gli interessi e gli obiettivi della società, ne relativizzarono il ruolo ristabilendo un ordine di priorità. Slotkin in The Fatal Environment affermò che si poteva prendere in considerazione un’ipotesi alternativa: «le forme particolari assunte dall’economia politica della metropoli in fase di sviluppo – i suoi modi di produzione, il modo di valutare i beni sociali ed economici, la particolare storia e cultura delle relazioni sociali, le peculiari istituzioni politiche – sono alla base della decisione di andare alla ricerca della ricchezza della frontiera e determinano la scelta delle persone che andranno (o saranno mandate) nelle colonie», determinandone così le scelte, il modo di vivere e lo sviluppo.

• W. Cronon, A Place for Stories: Nature, History and Narrative, in “The Journal of American History”, n. 78, Bloomington 1992; J. Faragher, Women and Men on the Overland Trail, Yale University Press, New Haven 1979.

D. Fiorentino

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