LA vie d’Adele


 

 

Chi ha visto “La vita di Adèle” di Abdellatif Kechiche?

 

All’inizio i primi piani così intensi, la descrizione eccessiva del cibo, le pieghe dei volti, il cercare insinuante della macchina da presa, come se volesse entrare nella vita dei personaggi, danno quasi un senso di claustrofobia. I volti sono particolari, i tratti enfatizzati, la bellezza e il ritmo delle scene così perfetto che sembra il respiro di notte di Adele, quel respiro che pervade tutto il film che è il respiro delle due donne quando si amano.

Adele è splendida, sembra disegnata da una morbida HB. Ed Emma è diafana, e sembra uscire dalle strisce di un fumetto. La carrellata dei volti e di occhi e di bocche è uno straordinario ritratto delle stravaganti forme della bellezza umana.

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Ma il secondo capitolo va al di là della luminosità dell’incontro e sprofonda nel dolore della fine, quando il racconto, superando la vita, chiede dove sia finito e come sia potuto finire quell’amore così totale.

In una cena a casa di Emma a base di ostriche e di crostacei si annuncia la differenza profonda tra le due ragazze, la loro distanza sociale e culturale e l’orizzonte di senso a cui entrambe appartengono. Così a poco a poco, dopo l’epifania dei corpi, emerge incomprensibilmente, come nella vita, l’incepparsi della dinamica relazionale, le insicurezze cocenti, l’incomunicabilità dolorosa, l’ipocrisia, quella parte di invisibilità in cui ogni amante, un tempo centro del mondo, improvvisamente scompare per trasformarsi in uno sconosciuto, totalmente altro. L’altro volto della luna.

La donna blu perde interesse per Adele, così semplicemente se stessa e lontana da quel mondo in cui manipoli di intellettuali parlano di metafisica dei colori, di decorativismo klimtiano e che la vorrebbe simile a sé. Tutti gli amici di Emma, i suoi genitori e lei stessa sono quasi imbarazzati dalla semplicità della ragazza, dalla sua schiettezza, dall’assenza totale di velleità e dal quel suo amore così genuino per la vita.

E Adele, che coglie la sua lontananza da quel mondo, tradisce Emma avvertendo il suo stesso allontanarsi e portando con sé il dolore della colpa della fine di una relazione a cui lei sembra tenere molto di più che la pittrice. E’ anche per questo che Adèle stenta a dimenticarla, mentre lei si “compie” in una famiglia, continuando a coltivare quella parte “maledetta” che la fa essere un po’ più “artista”.

Forse Adele è davvero la sua musa. Un elemento naturale e pulsionale, più che reale. E forse il film è anche questo: una critica molto dura a quella ricca borghesia intellettuale, alla sua ipocrisia, alla difficoltà che ha di liberarsi da stereotipi, all’incapacità che ha di vivere relazioni e sentimenti genuini, di vivere, piuttosto che di rinserrarsi nei salotti.

Forse anche per questo in Adele l’aspetto perturbante della sessualità e della sensualità è così vorace, quasi come se lei conservasse un aspetto ancestrale che, non per niente, compare in tutti i quadri di Emma e che ci fa credere, o volere, che ci sia un capitolo 3°.

 

giusigualtieri

 

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